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Fuori dai libri

Romanzo e racconto, serie tv e film

George Orwell ha lavorato in un negozio di libri usati a Londra, fra Hampstead e Camden Town, e ne scrive nel 1936 in Ricordi di libreria. Nello sproloquio delle sue memorie, un ampio spazio hanno le dinamiche con i clienti, in particolare con coloro che si affidano al libraio limitandone però i consigli:

«Ma non volume di racconti»; oppure »«Non bramo storie piccole» come era al solito precisare un nostro cliente tedesco. Chi ne chiede motivo si sentirà rispondere che è troppo faticoso abituarsi a nuovi personaggi per ogni storia. Sono tutti in favore del romanzo, che, dopo il I capitolo, non dà più noie.

Orwell imputa la colpa di tale rifiuto agli autori, in particolare agli americani e inglesi, apostrofando i loro manoscritti come «privi di vita e di valore». Tralasciando questo punto, opinabile, non si può non menzionare come maestri indiscussi del genere propri i cugini d’Oltreoceano, ma vi invito a spulciare per bene la nostra letteratura, soprattutto del secondo dopoguerra.

Sul perché si leggano meno le storie brevi se lo sono chiesti in tanti o comunque ne hanno evidenziato, nonostante siano molti gli editori coraggiosi che li pubblicano. Penso che non sia una malattia del tutto italiana. Certo, se ne lamentava Orwell della sua Inghilterra, anche se molto probabilmente il ritratto non combacia con l’attualità.
Per quanto mi riguarda la mia fatica è legata alla lunghezza e al non-detto. Insomma, l’inconcludenza – ellissi, porte che non si chiudono – e lo sforzo chiesto al lettore di immaginare la presunta fine. Se mai ce ne fosse una.
Un racconto è un lavoro estremo di limatura nel quale si omettono diversi passaggi (le famose porte aperte), richiede una maggiore concentrazione, in poche pagine o righe si accende e si spegne la vicenda. Forse questa forma è più congeniale ai ritmi frenetici della vita, a occupare il poco tempo di lettura a disposizione.
Il romanzo è un piatto che ti viene imboccato, così vicino all’idea di approfondimento, di svisceramento nel quale tu scrittore mi riveli tutto, ma proprio tutto.
Tuttavia, con il racconto si ha sempre una nuova possibilità, se qualcuno non è gradito si può passare al successivo, cosa che il romanzo non è fattibile, non c’è alcuna redenzione.
Quando mi sono imbarcata nella lettura della produzione breve di Hemingway, avevo molte aspettative legate soprattutto al nome. Bene su Quarantanove me ne saranno piaciuti pochi. E li ho letti tutti, anche quando avrei voluto lanciare il libro fuori dalla finestra. Li subentra la testardaggine.
Sta di fatto che nei confronti del racconto è grande il pregiudizio, di cui io per prima ho alimentato i miei limiti per anni. Però non l’ho mai considerato né figlio di un dio minore, né soprattutto un genere a se ma piuttosto, insieme al romanzo, universi narrativi similari. Come la recente scoperta di sistema solare analogo al nostro.
Il gioco comparativo dei due generi non fa che acuire la distanza con il lettore, che non li considera membri di una famiglia allargata, mostro dalle due teste quale è la narrativa ma piuttosto qualcosa di diverso come i gialli o le biografie. Non ha molto senso insistere sulle classificazioni, inaridiscono il dibattito.
Credo che sia una questione mentale: non siamo molti abituati a immaginare. Le brevi sequenze narrative si arricchiscono di supposizioni, si piegano ai tagli, ci invitano a scrutare tra gli intercapedini. Elementi caratterizzanti del racconto.

Rifletto da un po’ su questo paragone: i romanzi sono come le serie, i racconti i film. In dieci puntate e mille mila stagioni si consuma quello che potremmo sorbirci in un libro, si indagano gli animi del mondo, si giunge a una conclusione più o meno netta. Al livello strutturale c’è un respiro più ampio che connette frammenti, permettendo di elaborarli.
La scorsa estate, nell’ambito di una rassegna cinematografica, ho visto Un padre, una figlia di Cristian Mungiu, film romeno in cui, appunto, un padre e una figlia si trovano intricati in un dramma che riguarda la ragazza, in cui la vicenda assume contorni indefiniti fin dal principio, da quando si scandisce il contesto. A termine del film non mi è rimasto che pensare, vaneggiare e iniziare a contare le ipotesi, a riavvolgere il nastro e intercettare un comportamento, un tono per tentare di dare una mia chiave di lettura. Che rimarrà mia per gli strumenti e le conoscenze che ho a disposizione.
In pochi minuti la narrazione filmica, compiuta o meno, ti costringe a porti domande ben oltre il messaggio di fondo. E così che dovremmo pensare i racconti. Come a un film.

Non sono un’amante delle serie, avere un appuntamento fisso mi disturba perché si avvicina alla mia idea di compulsività. Quindi per logica non dovrei amare i romanzi, ma i racconti.
Leggo pochi racconti, ho trovato una dimensione nuova nelle antologie tematiche che mi aiutano a conoscere sfumature ambivalenti. Nella libreria non ne ho molti, non ho memoria di quelli che possiedo. Però di quelli che ho apprezzato sì.

Mi sono avvicinata alle storie brevi con cautela, sia su indicazione altrui, sia per “imposizioni” personale. Le mie sono state scelte ben più calibrate rispetto al romanzo, verso cui sono più disinvolta; li studio prima, mi procuro libri che sono in linea con i miei gusti per evitarmi un amaro ricordo
A un racconto chiedo qualità, forse più del romanzo, coinvolgimento come cento pagine, ispirazione, suggellare un patto sincero con lo scrittore. In una manciata di parole deve accumulare densità di scrittura e materia. Le mie speranze, i miei timori sono tutti qui.

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