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Fuori dai libri

A me gennaio non piace

A me gennaio non piace. Non per il freddo, perché non succede niente. È un mese piatto, si trascina dietro la palpabile nostalgia per le feste con tutto il corredo di rilassatezza. Bisogna attendere due mesi abbondanti per scrollarsi di dosso la rigidità invernale e immergersi in nuove atmosfere.
Insomma la primavera, a giugno ci si vede spalmati su una spiaggia, in autunno si è proiettati verso il Natale. Ecco a gennaio manca l’attesa per qualcosa.
Anche di febbraio e marzo penso la medesima cosa, soprattutto del primo. Mi infastidisce persino scriverli quando sono obbligata a datare documenti e programmi. Febbraio ha persino una certa comunanza di radice con febbre. Marzo nonostante la “z” bellica preannuncia il tepore primaverile.
È complicato firmare un armistizio con i primi tre mesi dell’anno. Almeno per me.
Poi gennaio mi porta un anno un più, sempre prima degli altri il che mi fa sentire con il bastone tra le mani. Il 4 gennaio. Pochissimi se ne ricordano – o fanno finta, troppo impegnati a pretendere per i propri – perché è in coda alle feste e quando qualcuno ti fa gli auguri, chi ti sta vicino pensa che siano di buon anno.
Sono 34. Non ho timore a dirlo, tanto non li dimostro nemmeno, ho dalla mia una genetica che mi fa regredire a 25 anni, addirittura in alcuni casi anche a 15. Al naso non c’è rimedio, mi consolo convincendomi che ho intellettuali origini greche. In realtà non so cosa quale sangue scorra dentro di me, però mi piace pensarla così.
Nella mia vita non è cambiato granché, né posso dire che ci sia stata una svolta appagante affinché mi faccia urlare alla felicità, ma né posso compiangermi. A periodi orribili, depressivi nel vero senso del termine, corrispondono rinascite simboliche e pulizie interiori, scoperte e intonazioni nuove.
Posso contare su una solida relazione che mi fa andare avanti, certamente non è tutto quello che mi serve ma ha il suo peso.

C’è questa moda consolidata di fare bilanci, darsi degli obiettivi mantenuti a metà: più sport, meno cose inutili, più gentilezza, meno carboidrati (tanto già gennaio si parla dell’imminente estate: è dietro l’angolo). L’unico obiettivo perseguibile è ascoltarsi. Ma davvero. Tentare di capire ciò che si desidera fin dalle cose più semplici. C’è un gran ribollire in me, che mi fa prendere le distanze – le giuste distanze – da ciò che è stato prima. Al quel gran ribollire prima non ho dato ascolto, ho tirato la corda fino ad adesso e si è spezzata. L’urto è stato forte tanto da farmi sobbalzare, mettere in discussione tante cose. Insomma non si può nascere in un modo e morire sempre in quel modo. Bisogna aprire le finestre, arieggiare, far filtrare prepotentemente la luce.
È stato un anno imperfetto, come sempre.
Che pianificazione fa rima con scompiglio.
Che non sono riuscita a leggere Paradisi minori di Megan Mayhew Bergman e Umami di Laia Jufresa; che ho invano tentato di dare qualità al mio tempo dedicato alla lettura tanto che per il 2018 ho abbassato le mie pretese; che non mi trovo a mio agio sui social network; che ho dato troppo valore ai libri tanto da reprimere certa creatività; che la gente ti fa pesare il tuo voler essere altro; che sempre quella gente è più interessata alla normalità di quelli che contano e meno all’eccezionalità dei terreni; che scarsa condivisione ed empatia tra chi scrive di libri equivale ed essere gelosi del proprio orto; che è più facile lamentarsi, come ora, che esprimere aspetti positivi.
Poi alla fine scoppi.
Ma ho conquistato questa consapevolezza.

Ci sono cose delle quali avrei bisogno.

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