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Fuori dai libri

La famiglia, la casa, la città

Ogni anno per Natale i miei vicini si riuniscono nel minuscolo salotto, preparano ben 300 tortellini, casette di pan di zenzero, canti. I preparativi li tengono impegnati per diverse settimane. Poi arrivano nipoti, fratelli e sorelle, nei giorni di festa. Attendono questo momento già da ottobre, lo rincorrono persino nelle chiacchiere del pomeriggio.

Mi appresto a organizzare la valigia per tornare a casa dei miei, al Sud. Sono quindici anni che lo faccio. Infilo dentro due maglioni, una gonna e qualche quaderno. Chiudo. E parto.

Ho letto due libri di Natalia Ginzburg, La città e la casa e Famiglia, pur sapendo che non fosse una scrittrice di famiglia, e forse per caso l’ha indagata come luogo di scrittura a lei più congeniale; ho pensato che avrei potuto affidarmi a parole di conforto per sedimentare alcuni detriti.
Non ho avuto risposte, se non qualcuna in Famiglia, nel racconto omonimo. Vite disordinate in un’accumulazione di eventi: ecco cosa ho letto.
Sono molto riservata, mi risulta complicato parlarne con qualcuno. Anche scriverne. Perché temo il giudizio di qualsiasi natura, mi sento vulnerabile per qualsiasi cosa faccia o pensi.
Spesso cerco di mappare certi sentimenti attraverso la lettura, sconfinando al di là della semplice necessità di dedicare del tempo per me o esercitare la grammatica italiana. Se percepisco qualche subbuglio in corpo, il mio rifugio sono i libri quando non so spiegarmelo, pur non affidandogli un potere che altri gli darebbero, non credo nella guarnizione ma solo nelle corrispondenze.
Come questa.
Sul tornare a casa, contenuto in Verso Betlemme di Joan Didion, invece, mi ha più volte spinta a riflettere.
Quando la scrittrice è a casa dei suoi riadotta certe dinamiche inammissibili dal marito, accantonate durante il soggiorno newyorchese perché quello è il periodo di cui si parla. Varcata la porta si ritrova immediatamente annodata in quei fili contorti che, consapevolmente, la intrappolano nei cassetti della memoria e dei movimenti.
Io no, quelle dinamiche mi sono oramai completamente estranee, anzi non mi capacito come le abbia praticate per diciannove anni. La mia famiglia ha un’integrità ferrea su alcune cose ma si perde in altre, ha difficoltà a esprimersi, le è più congeniale farlo con parenti particolarmente vivaci – che non costituiscono una forza di coesione, troppo impegnati a battibeccare e a criticare gli altri – o amici, con i quali è più facile lasciarsi andare ad esternazioni persino affettuose.
La mia mente allestisce Natali meravigliosi, cinematografici, che devo addomesticare a una realtà più sincera: l’allegria si spegne dopo il primo brindisi. Ogni anno c’è la pretesa di stare insieme. È una pretesa non imposta, ma è come portare «il fardello della “casa di famiglia”», così la definisce Joan Didion, drammatico e teso. «Paralizzata dallo sfinimento nevrotico generato dall’incontro» con l’incomprensione di me che non mi figuro più in quegli schemi. Di me aliena ma non anormale. A cominciare dall’accento, volutamente smussato per raggiungere un grado di neutralità che potesse allontanarmi da ciò che sono stata, che non significa rinnegare.
I miei hanno ricevuto un’educazione rigida, in cui i ruoli genitoriali erano ben determinati e io, come i miei fratelli che più di tutti hanno assorbito i loro dettami, mi sono dovuta adeguare pur essendo nata a vent’anni dal 2000, in una società in cui i figli sono da contorno e un dovere.
Non mi è stato promesso di crescere con il senso dei cugini e delle tazze della bisnonna, né mi è stato promesso un picnic sul fiume col pollo fritto e i capelli spettinati, ma abbiamo vissuto in modo diverso e non mi è stato promesso niente di simile. Plasmo a mio modo le parole della Didion, al mio punto di vista per dichiarare questo malessere che si fa più forte ogni anno. Sono furiosa con me stessa perché non riesco a deviare il corso delle cose. Forse per inerzia, abitudine o la preoccupazione dello scontro.
Avrei potuto darvi una versione edulcorata delle imminenti festività, un ritratto di famiglia simile a quello descritto sopra ma non è così. Preciso anche che non è un campo di battaglia.

Quando a mia madre al telefono le annuncio che trascorrerò solo una settimana con loro, comincia a sbuffare, le spiego che anch’io ho una casa, finalmente. Non capisce che questa casa non corrisponde alle quattro mura ma a ben altro, non si investe solo in denaro. Vorrei riempirla come una scatola di ricordi che non siano solo oggetti.
Ed è anche giusto dare ascolto ai cambiamenti e affidargli una voce.

«Cerca sempre dei luoghi dove stare». […] «Cerca delle madri , e dei padri, e dei fratelli. Poi si stufa, le sembrano sbagliati quelli che ha trovato, le sembra che è capitata nel posto sbagliato, cambia posto».

Poi questa cosa che si chiama città mi è estranea, se non l’angolo di mondo che io e il mio compagno abbiamo deciso di abitare. Non siamo stati scelti, né l’abbiamo scelta, ma per vicissitudini varie abbiamo messo radici. Qui stiamo arredando la nostra vita: il divano per le serate sonnacchiose, i piatti da intonare alla tovaglia, i prossimi progetti, i litigi e le risate.

C’è una distanza tra il prima e il mentre, una questione di confine, è come «stare solo tra parentesi, nella dimensione dell’attesa (che può anche durare una vita)¹».

Buon Natale

 

La città e la casa di Natalia Ginzburg, Einaudi, 1984

Famiglia di Natalia Ginzburg, Einaudi, 2012

Verso Betlemme di Joan Didion, Il Saggiatore, 2008

 

  1. Andrea Giardina, Castelluccio in «Doppiozero», 18 dicembre 2017