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Fuori dai libri

Racconti chiusi in un cassetto: il ruolo dello scrittore

Tra le storie del Cappello di Rembrandt di Bernard Malamud (Minimum fax) una mi ha colpita particolarmente, la più politica del libro, Uomo nel cassetto.

Non posso continuare di più a lungo in questo modo, disse Levitanskij, posandosi la mano su cuore. Mi sento chiuso a chiave dentro cassetto con miei poveri racconti.

Metafora quanto mai significativa che descrive il senso di sopraffazione che attanaglia Feliks. Ma andiamo con ordine.
Howard Harvitz è un traduttore americano, trascorre tre settimane in Unione Sovietica. Durante le sue peregrinazioni incontra Feliks Levitanskij che di professione guida un taxi. È uno di quegli incontri casuali, di poca importanza. In realtà tra i due nasce un rapporto al quanto curioso, incentivato dalle comuni origini ebraiche – un’intesa tipica della prosa di Malamud, definita come fraternità ebraica – seppur vissute con ardore differente: «fin dal momento in cui ci incontrammo la sensazione di riconoscimento progressivo si impadronì dei nostri sguardi, sebbene fossimo degli estranei». E proprio questo legame a spingere Levintaskij a raccontare qualcosa in più di se stesso: il tassista scrive storie ma non può pubblicarle in patria perché divergono dalle impostazioni dittatoriali, sconfinano oltre il realismo sociale, modello da seguire nell’arte.

Scrivendo mie storie ho imparato, stava dicendo lo scrittore, che immaginazione è nemico di Stato. Ho imparato da ciò che scrivo che non sono uomo libero. Questa è mia conclusione. Chiedo suo aiuto non per danneggiare mio paese, che ancora ha magnifiche possibilità socialiste, ma per aiutarmi a sfuggire suoi peggiori errori. Non desidero diffamare Russia. Mio scopo in mio lavoro è di mostrare suo vero cuore.

Consegna al traduttore americano i suoi scritti per leggerli e se trova qualcosa di buono di pubblicarli all’estero. Feliks è pronto a qualsiasi cosa per realizzare i suoi sogni; mentre Howard sa che più di quei libri, che ha dichiarato all’aeroporto di possedere, non potrà portare nel momento in cui lascerà l’Unione Sovietica.
Quanto e quando sia giusto trasgredire le regole? Ecco il nucleo vero della storia.

Solo un pazzo può aspettarsi che un completo estraneo in visita nell’Unione Sovietica gli tolga le castagne dal fuoco. È il suo paese che l’ostacola come scrittore, non io né gli Stati Uniti d’America, e dal momento che vive qui cos’altro può fare se non adattarsi?

Ci si chiede a questo punto quale sia il ruolo dello scrittore, eternamente diviso tra l’estetica e l’impegno. Perché adeguarsi snaturando il proprio essere, omologarsi a quanto viene impartito?
Lo scrittore conferisce all’oggetto narrato una sua importanza, dice Sartre, che prende vita nel momento in cui si avvicina un lettore, tenere un manoscritto nel cassetto non è altro che conservare «segni neri sulla carta».
«Mio scopo in mio lavoro è di mostrare vero cuore», come suggerisce sopra Levintaskij, come hanno fatto Puskin, Gogol’, Pasternàk – anche se quest’ultimo ha avuto i suoi grattacapi con il regime.
Feliks non mette in discussione le fondamenta del Comunismo sovietico quanto gli effetti prodotti dalla rivoluzione. Il cambiamento cosa produce? Paura. Non può dichiararsi pienamente realizzato se poeti, musicisti, drammaturghi sono costretti a riporre le loro opere nei cassetti perché non seguono i dettami statali, anche se così lo Stato non avrà mai la certezza né di consenso né di controllo.
Alla luce di questi fatti, la scrittura, il desiderio di esplorarla, diventa un conflitto interiore: reprimere la propria creatività in favore di qualcosa in cui credere fermamente non equivale a essere prigioniero al tempo stesso nella vita? A isolarsi persino con la realtà, che è materia del proprio narrare?
Rispettare la propria visione del mondo non equivale ad avere il successo o necessariamente rincorrerlo ma significa non scendere a patti con nessuno.
A tal proposito mi vengono in mente le parole pronunciate da William Faulkner per l’assegnazione Premio Nobel del 1950: [lo scrittore] «deve imparare da sé che la più vile di tutte le cose è avere paura.
[…] devono emergere i problemi dello spirito, i soli che possono fare una buona scrittura».
Quanto uno scrittore è pronto a rischiare? La lista di artisti perseguitati da uno Stato o dalla criminalità è assai lunga, ma Malamud non tratta della scomodità di un personaggio piuttosto di come sia un limite esprimere il proprio estro quando non è conforme ai dettami della società. Il discorso può essere esteso alle logiche editoriali e commerciali: quando si cavalca l’onda di un genere molto in voga o quando un autore, per la garanzia del nome, viene portato sugli scaffali della libreria nonostante l’opera abbia necessità di maggiore incubazione.
«La voce del poeta non deve accontentarsi di testimoniare l’uomo, può essere uno dei puntelli, delle colonne che lo aiuteranno a resistere e prevalere». Il suo coraggio gli varrà l’immortalità, e il riconoscimento da parte di quanti si identificheranno con la sua vicenda: si assume la responsabilità di scalfire in qualche modo le regole per se stesso e per gli altri.
È una questione che riguarda lo stesso Howard, anche se al rovescio, il quale oltre a tradurre, pubblica articoli di varia natura ma per esempio non ha mai preso una posizione contro la guerra in Vietnam, chi glielo potrebbe impedire in un paese libero come l’America?
In questo caso non è la censura ma la volontà di schierarsi, una scelta personale che si potrebbe definire vigliaccheria o indifferenza nonostante ciascuno di noi abbia un’opinione ben definita ma l’agiatezza della vita moderna e il conformismo ci frena nell’esprimere la verità.

Per Levitanskij Howard è l’ultima speranza, per concedergli la libertà creativa che il suo paese gli nega.

È giunta l’ora di verità senza finzione. Io mi rassegnerò fino a questo punto in cui rassegnazione interferisce con lavoro di mia immaginazione – mia libertà interiore; e poi dovrò smettere di rassegnarmi.

 

 

Il cappello di Rembrandt di Bernard Malamud, Minimun fax, 2015