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Fuori dai libri

Racconto d’estate

 Il treno è sempre carico, quello che da Roma viaggia verso il Sud, talvolta sovraccarico come nel mese delle partenze che poi è dei ritorni. Ci si accontenta di viaggiare in piedi, pagare una sovrattassa pur di raggiungere in qualche modo il paese delle vacanze.

Sul treno la percezione dell’arrivo si fa più serrata, conti le ore, i minuti, la distanza. Lento corre sui binari e ogni fermata sembra un ulteriore inganno, ne amplifica l’attesa.
Il tramonto è pallido al mio arrivo, presagio di una certa mia inquietudine e di un’estate che si è arrestata alla prima scia di nuvole grigie.
Al Sud, il tempo si ferma nonostante il ripopolamento delle piazze e il tramestio della campagna, che ha un equilibrio tutto proprio, si perde la concezione dei giorni. La notte non ha il profumo del gelsomino ma quello delle erbe aromatiche, c’è la pazienza di un cielo stellato. Addentrarsi, finalmente, in questi ritmi provoca smarrimento, di colpo si piomba nella calma catartica: è così che dovrebbe girare il mondo.
Non amo l’estate, e da qualche anno niente mi è più congeniale. Se prima mi illudevo del timido autunno, con la sua partitura rigida, ora neanche più i colori carichi mi donano sollievo perché le stagioni scandiscono un tempo che mi sfugge, sono sempre in ritardo sulla vita.
Il mare non lenisce gli assilli, li nasconde in un angolo pronti a sgattaiolare fuori al primo battito di vita quotidiana. A vedere quella distesa azzurra la leggerezza ti aleggia intorno, fai fatica ad acchiapparla e ti consoli con l’odore pungente delle metamorfosi intorno a te.
«Guarda quello!» Le mani si riempiono di sassi dalle forme e sfumature sorprendenti. Forse il mare davvero smussa i difetti.
Poi, più in là, qualcuno ha costruito un castello di sabbia con tanto di fossato e mura di difesa: è indistruttibile. Pura ingegneria di paletta e secchiello. Il mio è troppo fragile per riuscire a resistere alla prima onda che lo raggiungerà.
Però, il mare e il cielo concedono una tregua, un dono: le Isole si rivelano accese di sera e nei profili irregolari alle prime luci del mattino. Sul finire dell’estate l’aria si fa più fine e la vista si schiarisce. Qui la foschia c’è solo ad agosto, un manto per proteggersi dagli sguardi indiscreti. Anche in paese non vi è alcun punto privilegiato, mare e cielo si confondono, o meglio si fondono; pare che il cielo si levi da profondità insondabili.

I pomeriggi sono dei libri, quelli belli, messi da parte durante l’anno. Le parole sono dosate con il contagocce, abbandonarle per non perdere all’improvviso la magia.
Sul tavolo, in soggiorno adibito a scrivania, Il Gattopardo in un’edizione per l’anno scolastico 1997/’98. All’epoca ero in terza media e il professore d’italiano ci aveva evitato la sofferenza dei monumentali Promessi sposi. Lo ringrazio ancora. Devo dire che anche questa mi è stata difficile da comprendere, apprezzata con pienezza qualche sonnacchiosa estate più tardi. Forse per questo motivo l’ho tenuta accanto a me, ogni volta che buttavo giù qualche idea sui fogli sparsi. Quasi fosse un amuleto. Ne leggevo qualche riga e lo chiudevo.
È stata un’estate strana, senza accorgermene sono scivolata nella luce morbida di settembre…