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Le mie letture

Dizionario affettivo della lingua ebraica di Bruno Osimo

Adoro i dizionari letterari, da me considerate liste un po’ più elaborate, quelli che nascondono sempre storie bellissime quasi con leggerezza. E in quanto portatrice insana di liste e dizionari non potevo sfuggirmi l’ultimo libro di Bruno Osimo, Dizionario affettivo della lingua ebraica (Marcos y Marcos).

Cinquantacinque voci in questa seconda edizione, riveduta e ampliata, accompagnate da pronuncia e trascrizione ebraica. Quindi un glossario privato e per nulla scontato, che non si adegua a un rigido percorso alfabetico (procedimento utile in cucina per organizzare i cibi), i ricordi affollano la mente, si spintonano, si fanno largo con prepotenza, non possono seguire una logica.
Le voci sono quelle che il paziente sente quando è solo a casa propria. Questo dizionario si profila come una cura: è scritto nella breve introduzione, come un foglietto informativo.
Si narra della quotidianità a Milano, delle vacanze a Salò in una casa circondata da spiriti e dagli ulivi prima che le speculazioni edilizie avessero la meglio, del rituale edicola-barbiere-caffè-mercato del sabato mattina con il padre, lemma che apre il libro, del colore preferito della madre, del premio di consolazione a base di olive e grana dopo le iniezioni, della Millecento grigia, del coltissimo amico Raffaele, delle differenze sempre additate, della zia Lucia e dei figli emigrati California e in Inghilterra, dell’amore del padre per la cucina, delle mutande e dei calzini con l’elastico lento, delle nonne. È l’Italia del boom economico.
Lo scrittore non nasconde segreti e scheletri, anzi gli fa prendere aria senza timore. Oggetti, espressioni, situazioni hanno una storia che deve essere raccontata. «Quei reperti erano foglie di tè verde giapponese pronte a dispiegarsi in tutta la loro forma e il loro profumo al contatto violento, implacabile con l’acqua bollente».
Bruno Osimo diventa archeologo e agente segreto, tenta di spiegarsi fatti allora incomprensibili o taciuti: il fine ultimo è di riacciuffare l’infanzia. E così pagina dopo pagina, lemma dopo lemma, si va a comporre un’autobiografia bizzarra, ironica e nostalgica per un tempo perduto, per la tragedia appena sibilata.
Alla voce Monumento appare chiaro che la Storia ha coinvolto la sua famiglia. Si intuisce, i genitori non ne parlano mai apertamente. A Gerusalemme il narratore davanti allo Yad Vashem, il museo eretto in memoria dell’Olocausto, cerca di far luce su molti punti inconfessabili. Quando Bruno Osimo nasce è il 1958, sono trascorsi tredici anni dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Ho cercato di andare in giro per il mondo fischiettando e facendo finta di non sapere (in fondo non lo sapevo per davvero) che ero ebreo, ma adesso che sono qui dove c’è questa stazione, questo posto dove ci si ferma, dove si fa memoria, dove ci sono quelli che hanno sofferto come i miei genitori – cioè non come i miei genitori, ma in modo simile e diversissimo dai miei genitori, e tuttavia simile e comunque mi devo accontentare di quanto è simile, perché tanto i miei genitori non mi hanno raccontato nulla – adesso che sono qui dove c’è questa sorgente di memoria, dicevo, capisco che quello che mi è stato detto non è nulla in confronto di quello che mi è stato trasmesso senza dirmelo.

Vita e lingua viaggiano sul medesimo binario, si combinano per dare vita ad un catalogo intimo. La lingua è quella degli affetti e dei ricordi in cui il mammese, il codice personale della madre, ha un ruolo di primo piano.

Mia madre non parla né italiano né ebraico (questa dell’ebraico la dico così, a scanso di equivoci, perché molti quando sentono che sei ebreo non capiscono bene cosa vuol dire, e pensano che tu parli ebraico, anzi ‘ebreo’ o, a volte, ‘israeliano’): lei parla mammese, detto anche tampònico. Questa lingua non è ancora stata analizzata, ma consiste fondamentalmente nel fatto che non descrive la realtà come appare, ma come apparirebbe se non facesse paura. Se non mettesse in imbarazzo. Se non facesse provare dei sentimenti. Più che una lingua, è una difesa. È uno smorzamento, un ammosciamento. È un’attenuazione. È un materasso, un respingente, un tampone: l’etimo del secondo nome di questa lingua – tampònico – è incerto, ma molti studiosi propendono per l’attribuzione a quest’effetto di tamponamento di qualsivoglia componente affettiva di coinvolgimento.

Quello che desidera Bruno è sempre un’altra cosa, la sua volontà è influenzata dal sottile potere di dissuadere e dalla concezione del mondo attraverso gli occhi di lei. Il lessico della madre ha plasmato la sua infanzia e adolescenza, per farsi capire dal lettore si affida ad un traduttore.
Il complicato esercizio della traduzione deve esser libero da significati troppo inflessibili, il traduttore riformula il concetto in base alle proprie conoscenze e esperienze proponendo al lettore un messaggio nuovo, non una trasposizione univoca ma una corrispondenza completa nel passato per formulare una congettura sul presente. Il traduttore è un comunicatore per conto terzi, un esperto delle sfumature di senso, decodifica, in questo caso, attraverso i ricordi un racconto sincero, compila dizionari affettivi.

Nella kabbalah il numero 55 significa l’esistenza, la ricerca della serenità: chissà se Bruno Osimo è riuscito a placare quelle voci…

 

 

Titolo: Dizionario affettivo della lingua ebraica
Autore: Bruno Osimo
Editore: Marcos y Marcos
Pagine: 398
Anno di pubblicazione: 2016
EAN: 9788871687445
Prezzo di copertina: € 10,00