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Diario di bordo

Diario di bordo – Isole Eolie

Per anni ho disegnato con un dito il profilo, ho immaginato architetture, persino confuso i nomi nonostante conoscessi la posizione nel mare. D’inverno si fanno splendide, d’estate, con il sopraggiungere della foschie, sono ritrose. Le Eolie sembrano così vicine, una manciata di ore di navigazione dalla Calabria. Se vogliamo prenderla con positività.
Festeggiare il solstizio d’estate in luogo in cui ho riposto molte aspettative.

In ogni isola si sposta il primo pensiero della mente come ricerca di una nuova natura. Intorno a noi c’è acqua. Una rottura desiderata con la terra, un incontro che è al di là del nostro giorno.

Scriveva così Salvatore Quasimodo nel 1945, diventerà premessa del Libro dei giorni italiani: le isole felici. E questi sono stati giorni felici. Pochi ma felici.

Le Eolie percorse dalla mitologia dei venti, sette isole, sette sorelle, veleggiano nomi greci poi latini, unite indissolubilmente da suggestioni letterarie e tumulti di natura. Approdare è una bell’iniziazione.

Navighiamo, io e il mio compagno (ecco perché in molti punti leggerete noi, non sono così convinta a scrivere di questo viaggio al singolare, non è neanche giusto, per le sensazioni è diverso), su una di quelle imbarcazioni da crociera già così affollate a giugno. Partiamo da Tropea.
Lungo il tragitto si incontrano i delfini, qualcuno dimostra un entusiasmo forse troppo esagerato, che a detta della estenuante voce della guida di bordo, giocano con la barca. Crederci? Giusto per sostenere il lato romantico della traversata.

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Si sbarca come nei film, in massa, in quei porticcioli in cui i locali oramai sono abituati a quel ripopolamento forzato – un periodo che potrebbe sembrare infinito e che coincide con la loro stagione di rinascita dallo svuotamento degli inverni passati. Bastasse questo come risarcimento.
Vulcano pare non aspettarsi quella gente che finirà a spalmarsi di fango e pagare per una doccia che gli spetta di diritto. Un odore acre, che in altri contesti non sopporterebbero, ma qui si crede nel miracolo istantaneo di riti arcani.
Tra le rocce, le sezioni che più virano al giallo, fumano solforose, amplificano la sensazione di caldo.
La spiaggia dove i più, come me che hanno rinunciato al piacere del fango, si ritrovano sulla rovente sabbia nera. Appena provi a posare le piante dei piedi su quel nero mai visto prima ti balzano agli occhi le urla di Fantozzi colpito da Filini mentre montano la tenda al campeggio. Desisti del tutto, persino a trovare un breve refrigerio a riva “perché tanto tra poco ce ne dobbiamo andare”.

Saluti l’isola, la prima, e già ti penti, era meglio prendere l’aliscafo da Vibo Marina invece di sorbirsi fretta e divertimento artificiale.

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Lipari è la più estesa dell’arcipelago eoliano, che a ben osservarla dalla Calabria pare divisa in due. Ecco cosa mi traeva in inganno.
Qui per noi ha iniziato la libertà. Ci svincoliamo da quel gruppone e puntiamo diritti verso la casa dove alloggeremo per due giorni.
Con il cappello di paglia sei immediatamente etichettato turista, un buon motivo per proporti escursioni in barca verso le altre isole o scooter per perlustrare l’isola, ma qui il sole picchia e non è possibile infilarlo nella borsa.
Qui pullula di gente, è una cittadina congeniale ai villeggianti, c’è tutto – bar, banche, ristoranti, cannoli e pane al sesamo.
Dal castello, circondato dall’ampio polo museale, ci si tuffa insieme alle abitazioni in acqua, in quei rari tratti trasparenti. Dimenticatevi il mare cristallino, i fondali sono un ribollire di vita ancestrale che lotta e vive con l’attività vulcanica.

Canneto, – dimora fino a buona parte del secondo Novecento dei lavoratori delle «paurose cave di pomice di un affamato paradiso» –, è il primo punto di contatto vero con questa porzione di terra, lo raggiungiamo con la corriera, anche se si tratta di un modernissimo pullman. Seduta c’è un’australiana che è tornata per l’anziana zia; tenta di riordinare ai presenti la sua vita anche dei cliché. «Nu sacciu» mi risponde quando le chiedo il punto alle sue spalle è la fermata della corriera. Dell’Italia ha ereditato, oltre agli affetti, solo il dialetto.
La spiaggia è quasi deserta. L’acqua del mare è un po’ fredda. All’orizzonte Stromboli e Panarea.

La notte è ricca di stelle. È il 21 giugno, il primo giorno d’estate. Per me era giusto essere qui.

Alle 18,43 (ricordo benissimo) del giorno seguente sull’aliscafo ci siamo fatti una promessa, noi tre – io, lui e Salina – che saremmo ritornati. Ogni parola data non mantenuta è un debito.
Salina è lontana dalle rotte del turismo mordi-e-fuggi. È la sua fortuna. Come lo sarà ancor di più per Alicudi e Filicudi.

Calcolando male i tempi e non informandoci molto, è saltato il giro a Pollara, per i tempi biblici che ci vogliono tra un cambio e un altro di bus. A detta di un passante bisogna andarci almeno una volta nella vita. Di pietre sopra ne abbiamo messe non due, ma cinque, dieci, tutte quelle della silenziosa spiaggia al limitare con il lungomare.
Nella mia isola preferita un bagno è stato doveroso, anche solo per ringraziarla di tanta ospitalità. Ha risvegliato il mio spirito marino.

Le vie del paese non sono affollate, si animano nel tardo pomeriggio. Nella chiesa di Santa Marina, che si affaccia su una minuta piazza, c’è un pavimento bellissimo di maioliche.
Ha ragione Francesco Longo quando scrive che le pagine marine di Conrad, Melville, Stevenson, Poe, London, Defoe, Verne quella letteratura, ha un debito nei confronti di queste isole. Non credo che balene e navi siano solo ammennicoli da vendere a chi è di passaggio. Ho letto qualche segno.
Salina si veste di verde, crateri spenti così simbiotici, un un faro, meraviglia. Paziente e rigogliosa. Pare non temere l’abbraccio con il mare.

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Non ce ne siamo accorti che è già ora di imbarcarsi con la chiassosa nave da crociera. Stromboli è l’ultima tappa.
Inizialmente l’idea era di soggiornare qui, ma poi è prevalso il timore di sentire il respiro profondo del vulcano.

Molti si preparano ad ascendere Iddu. Limone, cioccolato, torcia, acqua: una parte dell’essenziale per poter raggiungere la vetta. L’isola è attrezza per gli impavidi scalatori.
Anche qui l’ennesima promessa avventurosa di seguire il loro esempio, ma dopo un’adeguata preparazione. Insomma siamo alle prime armi con l’escursionismo, ci vorrà ancora del tempo.
A mio avviso meno disciplinata rispetto alla stessa Salina che detiene la fama di selvatica. Appena abbandoni le due vie più frequentate la vegetazione è straripante, i suoni della natura si infittiscono.
Inutile dire che abbiamo tentato di trovare la Libreria Sull’isola di Stromboli. Mea culpa: avevo dimenticato il ragguaglio di Chiara del Pensiero meridiano riguardo il futuro recente della libreria.

Il vulcano lo misuri dal mare mentre sbuffa, è complicato percepirlo sulla terraferma, una sensazione che equivale a stare su un’isola. Mentre dalla piazza di San Bartolo fotografo Strombolicchio, non solo per quale associazione, mi ha fatto pensare a Montecristo. Forse così solitario, più delle vicine sorelle.

Il signore che cura la casa durante i mesi di assenza dei proprietari e presso cui abbia alloggiato dice con amarezza, salutandoci, che i giorni di vacanza tanti o pochi si consumano di fretta. È stato anche per lui così quando è stato dal figlio emigrato in Germania. Alla fine tutti arriviamo e poi ripartiamo.

 

Isole visitate: Vulcano, Lipari, Salina, Stromboli
Alloggio: Airbnb
Trasporti: Libertylines (che è meglio)

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