Quando parlo di cinema – è la seconda volta su questo blog – mi rendo conto che l’argomento sia fuori dalla mia portata. Senza lanciarmi in arzigogolati confronti, come al solito, prendete i miei sproloqui per dare un senso altro ai libri. Perché li ho trovati anche in questa pellicola, Le cose che verranno.
Nel frattempo, ho visto al solito cinema a due passi da casa altre storie, vi consiglio Libere, disobbedienti e innamorate (In Between) della regista palestinese Maysaloun Hamoud.
Comunque, veniamo al film più recente.
Il tema è il distacco a cominciare da quei pilastri che si sbriciolano all’improvviso nella realtà borghese della protagonista: il marito, i disguidi con la casa editrice per la quale dirige una collana filosofica.
Nathalie, insegnante di filosofia – interpretata da Isabelle Huppert – è sposata, ha due figli e una madre irrequieta che soffre della sindrome di abbandono nonché di un certo egocentrismo legato al suo passato di modella e attrice.
È una donna integra che contrasta con la madre così fragile, eppure le due donne troveranno, in due momenti della vita differenti, un punto di dialogo, corrispondenze future quando l’assenza dei propri cari e delle abitudini viene meno.
Ambientato tra Parigi e Grenoble, Le cose che verranno – L’avenir in originale – della giovane regista Mia Hansen-Løve, nelle sale da aprile, è un film molto francese, lieve e raffinato senza tanti strappi.
Se si dipana bene il filo della narrazione, la dimensione letteraria è, a mio avviso, importante.
Le prime inquadrature sono su Saint Malo, circondato da un mare forte delle sue maree, la famiglia si trova davanti alla tomba di Chateaubriand, che ha scelto di essere sepolto tra il moto incessante delle onde e del vento. Poi la scena si sposta nella capitale francese, molti anni avanti.
Ho invidiato tante cose.
Innanzitutto, la bella biblioteca che nella casa parigina apre al salotto. I volumi ordinati condivisi con il marito, saranno terreno di contesa: invischiati così tanto nei libri da non accorgersi di ciò che gli sta accadendo.
L’instancabile passione per la lettura di Nathalie, sempre e ovunque. I miei periodi bulimici mi fanno letteralmente odiare i libri.
Le lezioni all’aperto con gli studenti al Jardin du Luxembourg e ancor di più quel metodo di insegnamento basato non sullo studio mnemonico delle nozioni ma meditato. Rosseau, Kant, Adorno e Schopenhauer, citati durante il film, non sono privi di senso ma seguono l’onda lunga dell’attualità: Nathalie insegna a pensare con la propria testa, come ribadisce più volte. Tant’è che un gruppo di allievi, che la segue con passione, la invita a collaborare per il loro sito filosofico.
Poi ci sono le scelte di Nathalie.
La casa editrice chiede di svecchiare la sua collana di filosofia non nei contenuti ma nelle copertine.
La logica del mercato editoriale che bada al rendiconto di fama, alle statistiche e agli introiti difficilmente si accorda con il pensiero della professoressa. E così l’elegante collana dedicata ai pilastri delle sue analisi, nei disegni dell’ufficio marketing verrebbe sostituita da una grafica decisamente più accattivamene ma anche vistosa secondo Nathalie, non in linea né con il suo gusto personale né con il progetto iniziale. Si legge tra le righe anche un contrasto generazionale che fatica a trovare un compresso, una forma di dialogo costruttivo.
Ecco che la protagonista dovrà tentare di pensare all’avvenire, un lascito che deve trovare in ciò che predica da anni. Le farà notare il suo ex allievo, ora studioso di filosofia, Fabien, forse «il figlio che avrebbe voluto», la contraddizione tra quanto insegni e il disordine nella sua vita, i suoi pensieri conformisti sono una rigida barriera. Ed il suo pungolare che la mette in discussione.
La verità non può rimanere solo una bella donna, una ricerca sterile sui libri, ma deve essere colta a cominciare dalla quotidianità.