Nisida è davvero un’isola dell’arcipelago flegreo, una chela di granchio unita al continente da una sottile lingua di terra, un fazzoletto di mondo lontano dalla realtà. Valeria Parrella qui ha pensato a una storia, ha fabbricato immagini in una lingua nitida.
Almarina fin dalle prime battute appena, mi ha ricondotta ad Arturo e a Elsa Morante, un pensiero che non mi ha mai abbandonata. Poi sono subentrati altri riferimenti letterari ma l’idea di partenza è rimasta inalterata. La dimensione fiabesca è totalmente assente, ma c’è qualcosa che somiglia a Procida e quel ragazzino che ne esplora i confini.
Qui i confini sono impenetrabili: Nisida esiste, ospita il carcere minorile di Napoli.
Elisabetta Maiorano, insegnante di matematica, racconta con voce ferma l’entrata nell’istituto di detenzione, il prima e il dopo, il dentro e il fuori.
«Avevo traslocato da un luogo all’altro, ci avevo preso la forma a poco a poco, ci avevo sistemato i giorni a venire.»
Ogni giorno lascia il suo doloroso fardello davanti alla guardiola per riacciuffarlo la sera, per dedicarsi alla sua professione di educatrice per i giovanissimi reclusi. I reati non hanno un nome, perché è vietato pronunciarli: «in carcere del presente non si parla, e il futuro non si immagina». Chissà quanti si sbarazzeranno del passato.
Nisida/Procida non è ovattata, brillante di vegetazione e mare, ma rappresenta il distacco dalla realtà, «un’alternativa all’adolescenza, quella che conoscevano così poco. Era un’alternativa alla vita vera che non avevano ancora assaporato».
Tra i banchi spunta Almarina con la sua dura storia alle spalle, la quale come Arturo ha conosciuto improvvisamente le brutture della vita; ha gli occhi puri, lo slancio febbrile della giovinezza. E molte possibilità se la burocrazia e la giustizia non alzano muri.
«Quel giorno mi sono trovata sull’ultima panchina prima del mondo con Almarina rannicchiata dentro lo stupore.»
Fuori ci sono il diritto, il giudizio e la sentenza; dentro un corollario di sentimenti e regole non scritte. Almarina è una redenzione per Elisabetta.
L’isola per sua natura geografica è distante dalla città, sembra quasi di non vedere il mare che la circonda. Forse bisogna immaginarlo. Nelle sue parole non ci sono l’asprezza e la delusione della Ortese, piuttosto una riconciliazione che riscopre in una tazza di caffè al mattino e nella libertà delle proprie scelte.
«Il litorale nasceva dalle carcasse dell’acciaieria dismessa, s’incurvava a sinistra sotto il promontorio di Coroglio con le sue caverne ogivali di tufo e a destra su apriva verso Bagnoli. Davanti avevo solo Nisida.»
E lasciarsi cullare dal mare.
Ho appuntato molte cose su questo libro.
Almarina di Valeria Parrella, Einaudi, 2019