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Le mie letture

Colori d’autunno, i boschi di Thoreau e Rigoni Stern

A gennaio la terra non aspetta che il sole rinvigorente dei mesi più caldi per poter rinascere in piccole gemme e in un verde sfavillante, ma l’autunno è un’esplosione di vita nonostante ci si prepari per il lungo sonno. Andar per boschi, anche letterari, fa riscoprire questi ritmi magici.

 

I boschi di Henry Thoreau e Mario Rigoni Stern sono diversi anche per ragioni geografiche, di biodiversità e temporali, il New England e Asiago; il primo ha aderito al trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson, il secondo ha vissuto il secondo conflitto mondiale. Una narrazione più suggestiva quella dell’autore americano, che risente del meditato lessico ottocentesco; Rigoni Stern ha un piglio più pratico e intreccia la sua vita alla cultura popolare.
Il Thoreau, che conosciamo soprattutto per Walden, in Colori d’autunno (Lindau edizioni), breve saggio del 1862 pubblicato sull’«Atlantic Monthly», prende un sentiero più poetico e meno battagliero rispetto al suo scritto più noto. Fin dalle prime battute lo scrittore statunitense si stupisce come l’autunno, con le sue metamorfosi stagionali, trovi poco spazio nella letteratura: «ottobre ha sfumato appena di colore la nostra poesia». Le sue ricognizioni si focalizzano sullo sfarzo cromatico della natura:

Ottobre è il mese delle fronde dipinte. È allora che prendono a brillare in tutto il mondo del loro sontuoso fulgore. Come i frutti e le foglie, – anzi come il giorno stesso –, poco prima di morire, si vestono di colori luminosi, così fa l’anno prossimo al suo termine: ottobre è il suo cielo al tramonto; novembre, il crepuscolo che a quello segue.

L’autunno è una ricorrenza annuale, festeggiamenti intimi senza rintocchi di campane.

Arriva presto questa stagione in montagna rispetto alla città. Adesso l’appennino tosco-emiliano, dove spesso mi dirigo per le mie camminate, rispecchia effettivamente quanto si ritrova in questa lettura. Le faggete scaldano di un oro vivace i pendii e i riflessi dei piccoli laghi, a cui si accodano i balsamici abeti, rosso e bianco, in un’alternanza di sfumature. È un appuntamento per me irrinunciabile, che si rinnova ogni anno ed è sempre sorprendente. Comprendo bene l’entusiasmo di Thoreau e Rigoni Stern.

Tracciando questo percorso cromatico, Thoreau racconta la natura come qualcosa di tangibile che si esprime attraverso forme e colori. Ci invita ad acuire la vista, per essere in grado di percepire i particolari, liberarsi da immagini precostituite per vedere nell’intera foresta un giardino. Avventurarsi anche di poco «vedrete sicuramente tutto ciò, e molto altro ancora, se sarete pronti a vederlo, – se lo cercherete». Nel momento stesso in cui vista e mente si fanno più limpide, diventano una lente d’ingrandimento su quanto prima ci sfuggiva.
Quando Rigoni Stern racconta del tasso, sibillino riprende l’invito del suo collega seppur riferendosi all’eredità culturale, ma la sua voce è piuttosto rammaricata:

I miti, le leggende e la venerazione che per millenni gli alberi hanno suscitato negli uomini si vanno sempre più affievolendo, perdono interesse e non sono più nemmeno curiosità.

Si riconosce all’occhio umano una capacità di catturare la giusta quantità di bellezza se solo siamo liberi e realmente incuriositi.

Quando sarete capaci di osservare diligentemente i mutamenti che persino le più umili tra le piante subiscono, scoprirete che ognuna di esse assume, prima o poi, la sua peculiare livrea autunnale; e se v’impegnerete a stilare una lista completa delle tinte smaglianti di cui sono in grado di rivestirsi, sarà lunga quasi quanto un catalogo delle piante che crescono intorno a voi.

I vagabondaggi botanici di Thoreau sono ricchi di notizie scientifiche, sottolineando quale attento osservatore sia, sono un’ode alla natura, alla sua livrea cangiante. I colori dei suoi boschi sprigionano un’aromatica fragranza «alimento che nutre la terra»: l’amaranto della cremisina, il rosso dell’acero, il cinerino del gelso, il bronzo dell’olmo, il giallo cromo del pioppo, il cremisi del mirtillo americano. Sono i suoi tardivi fiori da giardino. Una tavolozza di finezze che, un naturalista dell’anima come lui, che vorrebbe fissarla attraverso il disegno in un erbario personale, una raccolta di foglie all’apice della brillantezza cromatica: «sarebbe sufficiente sfogliare le pagine per ritrovarsi e passeggiare nel cuore dei boschi autunnali ogni volta che ci colga l’uzzolo di farlo». Sotto i piedi calpestiamo un tappeto croccante: Ottobre, o colori d’autunno.

 

Accomunato da una grande e sempre narrata sintonia per la montagna, anche Mario Rigoni Stern in Arboreto salvatico (Einaudi) allestisce una collezione intima di venti piante, che hanno trovato corrispondenza nella sua storia. E intorno ad essi racchiude brevi racconti botanici secondo uno schema ripetitivo, curiosità storiche e legami personali, appunti letterari, riferimenti ai miti mediterranei e nordici, senza dimenticare l’importanza economica che hanno avuto nella vita comunitaria dei villaggi di montani, segnati anche dai conflitti bellici di inizio Novecento e dallo spopolamento. È rammentare un tempo che non c’è più ma che è custodito nel percorso naturale di questi esseri viventi. Gli alberi sono testimoni silenziosi di vita e morte.
Torniamo al titolo: perché salvatico, lo illustra lo stesso scrittore nell’introduzione all’edizione del 1996:

Ma “salvatico”? L’aggettivo era usato nel Rinascimento per selvatico: due parole che messe insieme mi piacciono, anche se in contraddizione tra di loro: selvatico è non coltivato, non domestico, ricoperto da selve, anche rozzo; ma c’è la vocale a al posto di una e, e così tutto cambia: un salvatico che diventa salvifico, che conduce alla salvezza.

Quale? Dello spirito, di una storia antropologica che trova nella Natura un rifugio soprattutto contro le brutture umane. Nel brolo (l’orto) sono stati piantati una sequoia, non una specie autoctona, e due pioppi, la prima è il ricordo del signor Giuseppe, amico del padre di Mario, per compagni caduti nella prima guerra mondiale; i secondi provengono dalla pianura emiliana dove i genitori hanno trovato riparo come profughi.
Il suo erbario condivide con Thoreau l’acero, il cui fogliame rosso vivo «spicca come grande solista nella sinfonia del bosco» e, al tempo stesso è tessuto da memorie più lievi e da «supposizioni di un botanico dilettante un po’ poeta».

A distanza di un secolo l’uno dall’altro entrambi predicano il rispetto della natura che segue i suoi ritmi e non è un’eccezione. Noi siamo solo suoi ospiti. E gli ospiti non sono poco attenti. È chiaro l’intento ecologista quando effettivamente il concetto non era nato o agli albori di una questione sempre più pressante.

 

Colori d’autunno di Henry D. Thoreau, Lindau edizioni, 2019
Arboreto salvatico di Mario Rigoni Stern, Einaudi, 2015