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Le mie letture

I pesci non hanno gambe di Jón Kalman Stefánsson

Probabilmente non diciamo mai tutta la verità. A volte per niente, tacciamo sempre qualcosa; per rendere la vita più gestibile, per evitare l’infelicità. Ma forse più spesso per illuderci, per farci più belli, forse più spesso ancora per codardia. Trasformiamo il silenzio in menzogna, lo trasformiamo in tradimento. Raramente diciamo la verità e per questo non siamo mai onesti. È perché non osiamo affrontare noi stessi, il mondo come l’abbiamo creato? Allora la vita dell’uomo è solo una fuga e un’illusione?

Quando Ari parte da Copenaghen si lascia alle spalle un matrimonio e figli dopo banale martedì, con un solo gesto. E ora sorvola l’oceano per raggiungere Keflavík in seguito alle gravi notizie ricevute sulla salute di suo padre, malato terminale.
Chi ha già letto Jón Kalman Stefánsson sa sicuramente cosa aspettarsi, la prosa con cui si misurerà è lirica ed elastica e le sue storie sono sempre quell’amalgama di realtà nuda e bellezza. Nei Pesci non hanno gambe (Iperborea), pur focalizzandosi intorno alla figura di Ari, non si perde di vista quel tutt’uno che è l’Islanda, una terra lontana in cui riecheggia un canto corale.
Chi narra di Ari e della sua storia familiare è una voce che scardina la sua biografia, indaga le origini di una sofferenza atavica che affonda le sue radici molto lontano.
In principio ci sono Oddur e Margrét, che si ritrovano uniti nel loro amore. Le preoccupazioni e la solitudine incrinano il mondo della donna, la quale si vede costretta in un piccolo mondo.
In lei, come in Ari, seppur per motivi diversi si acuisce il senso di colpa nei confronti del marito e dei figli, ma ancor di più verso la propria persona. Ari arrivando in Islanda, al terminal dell’aeroporto è costretto ad un controllo, etichettato come possibile sospettato in possesso di sostanze stupefacenti. Qualcuno ha chiamato la polizia: «non è quello che sembr»a. L’ispezione sembra voler risalire alle cause della sua negligenza, lo gettano nello sconforto totale. Anche per lui vige alta l’amarezza per aver lasciato i figli, non aver mai provato ad abbattere il muro di silenzio che lo divide dal padre, aver capovolto il suo mondo in quel banale martedì.
All’improvviso si rompe qualcosa, l’idillio si trasforma in gesti fastidiosi, una quotidianità miserevole e l’idea di onnipotenza che si disperdono al primo contraccolpo. Il dolore oscilla tra due costanti inviolabili vita-morte, diventando esso stesso una costante nell’esistenza di ciascuno.
C’è forse un’eredità di fondo che si trasmette negli anni: Ari e Margrét, due generazioni a dividerli, raccolgono il caos. Sfiorisce la giovinezza, «il tempo scombina troppe cose, ci appesantisce il passo, ci ricorda che la vita trascorre più rapida di quanto riusciamo a comprendere, che a volte non è molto più di un istante».
L’uomo, dopo aver lavorato nella pesca, a Copenaghen si occupa della redazioni di manuali pratici che riscuotono un discreto successo, come Dieci modi per guarire le ferite del cuore. I lettori moderni sono attratti da questi prontuari che liquidano la vita in poche battute, al massimo in un elenco più o meno elaborato. Per Ari non funziona così, la poesia e la scrittura sono ancore di salvezza: «dove finisce il gasolio, subentra la letteratura».
La trama è quasi essenziale ma dentro c’è un cuore ricco, labirintico, un’esplorazione dell’animo umano. «Chi si mette a scrivere non può tacere nulla» dell’uomo e del luogo che abita.
«A Keflavík  ci sono tre punti cardinali; il vento, il mare, l’eterno». Il quarto se l’è sono portato via l’esercito americano, una presenza pagata profumatamente, quando ha lasciato l’isola dopo circa quindici anni. E forse per tale ragione che agli islandesi manca il senso dell’orientamento, quel punto a cui aggrapparsi per sopravvivere. Gli americani hanno sradicato tante cose e hanno impiantato un fast-food.
Qui finisce il mondo: un vulcano fa da guardiano, la crisi economica e la riduzione delle quote ittiche hanno ridimensionato gli slanci vitali, gli abitanti non sono più pescatori o marinai e il porto è vuoto come una parentesi intorno al niente. Le leggi dell’assurdo e intrighi governativi non risollevano le loro sorti.
L’Islanda è angusta, tagliente, conosce per una manciata di ore l’estate. Il mare è un impero nero, ma l’unico in grado di comprendere tutto il dolore di Ari: davanti alla finestra dell’albergo in cui alloggia sente che gli affanni possono essere colmati.

È la distesa immensa, la vastità incommensurabile che tranquillizza, consola, e sminuisce i problemi della vita. Le difficoltà sulla terraferma, le frizioni, le frustrazioni, i rapporti con le persone gli obblighi, è sufficiente guardare le onde e l’esistenza si placa in petto. Poi magari si alza il vento, le onde torreggiano sopra la barca, più alte, sempre più alte, gli avvallamenti così profondi che quasi vedi il fondo dell’oceano, come se stesse salendo verso la superficie per venire a prenderti.

Escluso Gesù, «nessuno può camminare sul mare, è per questo che i pesci non hanno gambe».

 

Titolo: I pesci non hanno gambe
Autore: Jón Kalman Stefánsson
Editore: Iperborea
Traduttore: Silvia Cosimini
Pagine: 440
Anno di pubblicazione: 2015
EAN: 9788870914474
Prezzo di copertina/ebook: € 19,00 – € 9,99