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Diario di bordo

Altri settentrioni – Lofoten

67.993°N / 13.639°E
Le dovrò appuntare sul quaderno di viaggio: coordinate di un approdo.
Sono qui dopo questo aver oltrepassato l’ingresso della Norvegia. A Nord, sopra l’Islanda.

Dal traghetto non si scorge nulla se non il mare cupo. Ed è proprio il traghetto, con la sua poppa ingombrante oscura le Lofoten: si scorge appena Moskenes, con il suo porticciolo, e Sorvågen, forse Tind. Sono le 20,10 circa e qui c’è una luce cupa.

Sulla strada per Fredvag si comincia a familiarizzare con le montagne, proprio perché la barca ha precluso lo stupore: è il Lofotenveggen, il Muro delle Lofoten, le cime si ergono dall’acqua in tutta la loro maestosità, senza intermezzi, né gradualità. «È come una dentatura di squalo, con file di denti neri una dietro l’altra», Morten A. Strøksnes le definisce così, lui che della caccia allo squalo e di questo arcipelago ne ha fatto meraviglie in un libro.
La roccia tra le più antiche del pianeta, ha toni scuri, le pendici sono coperte di vegetazione bassa e di qualche bosco di abeti o salici alpini, gli unici a sopravvivere al vento impetuoso che fustiga questi profili.
La Natura è aspra e il mare prima di diventare oceano è Mare di Norvegia.
Ma la bellezza è dei prati che si spingono a ridosso delle spiagge: il vento leva un gentile profumo di camomilla che qui non c’è, ma fiori più variopinti come l’angelica, l’armeria marittima, la silene dioica. Ci sono solo odori netti: salsedine, pesce essiccato che contraddistingue i rorbu, (le abitazioni dei pescatori), floreale. E le correnti ne sono complici.

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Dicevo spiagge, sì, di quelle che qui non ti aspetti, perché si ha la perenne sensazione che le montagne non lascino scampo e centimetri di vita. A Ramberg c’è una prima sorpresa: acqua che si fa cristallina in prossimità della riva, come a Eggum, Ytresand.
Qualcosa si potrà intravedere anche se il sole non sarà il vostro migliore alleato. Il tempo è mutevolissimo, persino nemico ma bisogna ricordare che si è sempre nel cono d’ombra del Circolo polare artico.
Ho avuto scarsa fortuna con le temperature e pioggia, ma in qualche modo ho viaggiato senza pretese, consapevole che il freddo e le nuvole siano una qualità di queste latitudini. Ho viaggiato così, senza aspettative.

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Lo scenario non cambia molto da Nord a Sud, se non nella quantità di case o nel colore che le caratterizza come Tind e Sakrisøy vestite di un giallo scuro. La palette del paesaggio nordico è la medesima in ogni angolo: grigio scuro, rosso, giallo, verde, blu profondo. E poi c’è il bianco dei gabbiani, moltissimi, e delle pecore che indisturbate attraversano la strada, un quadro del centro e del sud.

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I villaggi sono mucchietti di case – Reine, Nusfjord (entrata a pagamento), Å, Sund, Hamnøy tra i più belli – che trovano dimora anche sugli isolotti, uniti con maestria da ponti sinuosi che non scompongono la naturalezza iperborea, o anche abitati da soli fari, il leitmotiv di ciascun villaggio, che spesso conta ad averne più di due. Vivono piccole comunità o una sola famiglia. Sarà questa la cosiddetta solitudine nordica? C’è qui «un’idea antica, mitica e purista, dura ed esigente, di quel Nord che si mantiene intatto in Islanda e che ha recuperato il suo potere nelle Fær Øer».

Lunga è questa terra
e quasi tutta è nord

Scrive Rolf Jacobsen, io ci ho lasciato un pezzetto di cuore e lacrime.

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