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Le mie letture

Tempo di imparare di Valeria Parrella

Con i libri di Valeria Parrella, almeno fino a questo momento, non ho avuto un buon rapporto. Ho letto ai tempi dell’università (oddio, quanto tempo!) Mosca più balena e non mi era piaciuto, forse perché ci trovavo una certa distanza di mondi, quello dei racconti e quello della scrittrice. Poi, è stata la volta dello Spazio bianco e il mio giudizio era migliorato, ma non era riuscita a conquistarsi un po’ di credibilità. Ho saltato tutto quello che ci stava in mezzo e sono giunta a Tempo di imparare con reticenza e paradossale curiosità. Perché non volevo farmi illusioni.

Splendido nella sua essenza, privo di una trama vera e propria, pochi gli elementi che circoscrivono la vicenda, quadri, situazioni, aneddoti. Così come è essenziale anche nella struttura. Forse è addirittura azzardato parlare di romanzo. Posso dire che è la storia di un percorso a due, che procede parallelo per poi proseguire su un’unica linea.
Seppur tratta di un dramma a me incomprensibile, ha quelle pennellate poetiche che brillano di luce propria intorno a immagini antiche e folgoranti. La Parrella ha costruito una vicenda intensa che non ti lascia respirare, che ti fa pensare e sentire inutile davanti a questo dolore.
La storia è principio di tutte le altre storie: di una mamma e di un bambino. Inizia con i turbamenti, le apprensioni, le fragilità che un genitore deve affrontare già alla nascita di un figlio, ma se le cose si complicano tutto è in gioco. Questa maternità è sofferente come la disabilità del piccolo Arturo. Infatti, questa mamma e questo bambino sono isolati, pronti a battagliare per non elemosinare nulla di più di ciò che gli è dovuto. L’iscrizione alla prima classe elementare è la scintilla che fa esplodere paure e precarietà, equilibri e accettazioni. Ciò che dovrebbe essere diritto e normalità per tutelare la diversità senza far pesare nulla, invece si arma di burocrazia e orecchie che non vogliono ascoltare. La scuola è inglobata in un sistema in cui «il diritto è un’occasione che devi prendere dalla giostra, quando passa sotto l’anello, se sei capace».
C’è un senso di fiducia verso la scuola come luogo di istruzione e di condivisione, ma è labile perché subito mostra i suoi ostacoli. E questa madre sa bene che l’handicap non è solo del figlio, ma anche di uno Stato “assenteista”. «Che sconfitta, figlio, tenere assedio al proprio Paese. Uno stato che ti guarda dall’alto in basso e vede che quel tuo tatuaggio, 104, è una seccatura, un difetto da non tutelare, ma da relegare ai margini della società e dimenticarsene. Per sempre».
Questa sfiducia si concretizza nel terrore che quel figlio non possa conoscere tutti gli aspetti della vita e affidarsi ad una madre e a persone care che non ci potranno essere per tutta la vita. Arturo e sua mamma non sono soli contro il mondo. Ci sono Ariel, il compagno della voce narrante, i nonni, uno stuolo di genitori e figli accomunati dal medesimo problema e c’è soprattutto il Botanico, una figura fantasiosa e bizzarra. È  in grado di custodire nell’ovatta la parola handicap e di farla germogliare, di aiutare questa madre con la sua presenza fuori campo.
Ogni conquista va custodita perché le sconfitte sono dietro l’angolo, altrimenti ogni giorno bisogna ricominciare a ricostruire per non rinchiudersi in una prigione.
La libertà si ritrova solo davanti alla vasta distesa salata. Il mare che bagna la città è un luogo di gioia dove le distanze si annullano, sollievo, fuga dalla realtà e uguaglianza: basta solo il costume e tuffarsi. E poi all’orizzonte si staglia l’Isola, promessa di una lunga vacanza.
È una confessione, uno sfogo a tratti rassegnato a tratti furioso, si mescola nelle righe di un diario. Ecco, quindi, che sembra un dialogo e quasi una preghiera che ha come interlocutore se stessa e il figlio. Non c’è distanza tra i due, ma una connessione di sensi, lingua e battaglie. La lingua in cui l’io e il tu, della madre e di Arturo, si confondono come si confonde la misura di spazio e tempo di Arturo stesso.
Ma c’è, appunto, quel rumore di fondo che turba la quiete domestica, l’handicap: una parola non italiana, che inizia per h, «una maiuscola corsiva che mai alcuno ha saputo fare bene» e che accomuna figli e genitori nel simbolo della tribù, un uomo seduto su una falce di luna. L’alfabeto italiano non basta a esprimere questo senso. Il senso si perde anche nelle istituzioni, nella scuola, nella strada soleggiata. E allora, occorre munirsi di elmetto e di autoconvinzione, equipaggiarsi di zaino e matite e andare a scuola. Inizia per lei la più dolorosa lezione della sua vita, l’accettazione. «È tempo di tornare sui libri di grammatica, aprirli piano, cercare nell’indice la fine, scovare la pagina: marcare l’io e il tu, farli irriducibili l’uno all’altro eppure intercambiabili». È giunto il tempo di imparare.

Imparare ad eliminare la riserva mentale “del me non può accadere”.
Imparare ad essere cinici.
Imparare ad accettare nuovi rifiuti.
Imparare a superare prove che sanno di antico e mitologico.
Imparare ad avere fiducia nell’altro.
Imparare a ricalcolare le distanze
Imparare a tenere l’equilibrio appena conquistato.
Imparare a pesare le speranze e le delusioni.
Imparare a pretendere in brutto Paese.
Imparare ad acquisire consapevolezza e riconoscere il problema.
Imparare a dividere le esperienze e solidarizzare.
Imparare a non avere obiettivi precisi.
Imparare a cambiare le prospettive per ricominciare a vivere.
Ma c’è soprattutto la promessa di imparare.

Titolo: Tempo di imparare
Autore: Valeria Parrella
Editore: Einaudi
Pagine: 136
Anno di pubblicazione: 2014
EAN: 9788806214067
Prezzo di copertina: € 17,00