Il ritorno a casa per le vacanze – estive o natalizie – genera confusione, fatico a ritrovare gli spazi che un tempo erano miei; coincide con il riabituarmi a dinamiche che per buona parte dell’anno dimentico e che non si accordano ai miei ritmi.
Sono quindi spodestata dalla mia vecchia camera, quella in cui ho dormito, pensato, letto fino a diciannove anni, diventata oramai regno di mio fratello e costretta a comodini di fortuna come un mobile o una robusta cassetta di legno in grado di ospitare momentaneamente i miei averi. Pochi. Pochissimi. Essenziali.
Un’ancora che ho fatto con le mie mani con il fimo per la collana che indossa spesso in estate, dipinta in un blu mare. È una cosa che mi manca, il mare.
L’agenda sulla quale appunto brevi impressioni, cose utili per il blog: l’organizzazione prima di tutto. E poi libri.
Sono dei totem, quelli che sfoglio ogni volta che torno a casa alla perenne ricerca di un aspetto che mi sfugge. Punti fermi, insomma.
Il Gattopardo è uno dei miei libri preferiti. Questa è un’edizione scolastica. All’epoca delle medie non lo avevo amato, non trovavo un filo logico in quella narrazione che mi sembrava così distante dai miei acerbi gusti letterari. La scrittura pomposa non mi aveva aiutato così come quel guardare a periodo storico all’avamposto di un’Italia che usciva dal secondo conflitto mondiale, si tuffava nel boom del miracolo economico e mirava e certi fasti antichi con un certo distacco. L’ho riletto daccapo in un caldo pomeriggio estivo di qualche anno più tardi, volevo riempire le lunghe e tediose ore cariche di sole. L’ho divorato in pochi giorni, rendendomi conto di aver concesso a me stessa un’occasione preziosa e ben ripagata. Pazienza e concentrazione sono stati due principi importanti per affrontare quest’opera visto i precedenti. Lo stesso Tomasi di Lampedusa lo scriveva in una lettera a Lojolo: «Bisogna leggerlo con grande attenzione perché ogni parola è pesata ed ogni episodio ha un senso nascosto».
Sento ancora la voce sommessa e conflittuale del Principe Fabrizio di Salina mentre assiste alla fine di un’epoca. Da queste pagine si sprigiona la Sicilia odorosa di zagare e mare in lontananza, le luci e le ombre dei palazzi nobiliari. Adoro ogni virgola, aggettivo, l’atmosfera, del Sud sanguigno e ritroso.
Calvino parla da sé, non ha bisogno delle mie presentazioni e di troppi discorsi.
Sulle Città invisibili ci giro intorno, il pregio è la sua natura frammentaria: si apre a caso una pagina senza il timore di perdere il filo.
Kublai Kan e Marco Polo sono figure sottili, affascinanti e pur dense. I loro dialoghi rivelano inedite trame di significati. Sappiamo tutti quanto geniale e profondo sia stato Calvino e nella brevità del testo condensa l’intricato intreccio del mondo. L’opera è un personale atlante onirico e emozionale.
Uno dei passi con cui mi confronto parla di comprensione, affidando un ruolo importante entra all’interlocutore che ha il potere di attribuire o meno un valore ai segni.
Kublai domanda a Marco: — Quando ritornerai a Ponente, ripeterai alla tua gente gli stessi racconti che fai a me?
— Io parlo, parlo, — dice Marco, — ma chi m’ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella di uno scrivano di romanzi d’avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio.
E ancora.
Di tutti i cambiamenti di lingua che deve affrontare il viaggiatore in terre lontane, nessuno uguaglia quello che lo attende nella città di Ipazia, perché non riguarda le parole ma le cose.
[…]Mi sentii defraudato e volli chiedere giustizia al sultano. Salii le scale di porfido del palazzo dalle cupole più alte, attraversai sei cortili di maiolica con zampilli.
[…]Dov’è il sapiente? – il fumatore indicò fuori dalla finestra. Era un giardino con giochi infantili: i birilli, l’altalena, la trottola. Il filosofo sedeva sul prato. Disse: – I segni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere- . Capii che dovevo liberarmi dalle immagini che fin qui m’avevano annunciato le cose che cercavo: solo allora sarei riuscito a intendere il linguaggio di Ipazia.
Ipazia è una città reale – i cambiamenti riguardano le cose – pur essendo invisibile; incarna l’aspirazione a riappropriarsi dell’autenticità.
Si parla sempre di cambiamenti o meglio di combinazioni anche nel Castello dei destini incrociati.
Le carte del mazzo sono tutte spiattellate sul tavolo. E la mia storia non c’è? Non riesco a riconoscerla in mezzo alle altre, tanto fitto è stato il loro intrecciarsi simultaneo. Infatti, il compito di decifrare le storie una per una m’ha fatto trascurare finora la peculiarità più saliente del nostro modo di narrare, e cioè che ogni racconto corre incontro a un altro racconto e mentre un commensale avanza la sua striscia un altro dall’altro estremo avanza in senso opposto, perché le storie raccontate da sinistra a destra o dal basso in alto possono pure essere lette da destra a sinistra o dall’alto in basso, e viceversa, tenendo conto che le stesse carte presentandosi in un diverso ordine spesso cambiano significato, e il medesimo tarocco serve nello stesso tempo a narratori che partono dai quattro punti cardinali.
[…] Certamente anche la mia storia è contenuta in questo intreccio di carte, passato presente futuro, ma io non so più distinguerla dalle altre. La foresta, il castello, i tarocchi m’hanno portato a questo traguardo: a perdere la mia storia, a confonderla nel pulviscolo delle storie, a liberarmene. Quello che rimane di me è solo l’ostinazione maniaca a completare, a chiudere, a far tornare i conti.
Lo smarrimento della persona nella moltitudine delle storie è un sentimento che mi accompagna quando mi soffro di bulimia da libri. Scusate se riduco questo passo alla mia banale esperienza di lettrice. Tale senso è così forte da perde la traccia della mia individualità.
Il vecchio e il mare è una lettura dei prossimi giorni, mi sono concessa una pausa dai libri per ricaricarmi e dedicare cuore e mente prima di tuffarmi nei miei imminenti programmi. Conosco poco Hemingway, così ho deciso di addentrarmi in uno dei racconti marini per eccellenza. Altro non posso aggiungere. Mi perderò qui, nell’avventura solitaria e azzurra.