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Le mie letture

Lessico famigliare di Natalia Ginzburg

14 luglio 2016. Cento anni dalla nascita di Natalia Ginzburg.
Nelle antologie scolastiche non è contemplata. Non vi dico il rammarico quando, in procinto di documentarmi sulla sua bibliografia, non ho trovato alcun riferimento nel mio libro dedicato alla narrativa italiana novecentesca in cui le autrici sono ridotte a poche fortunate apparizioni. Anzi dirò di più, non credo che sia mai stata suggerita come lettura durante il periodo liceale.
Quella che ho con me è una vecchia edizione Einaudi, acquistata ad un mercatino, insieme a un altro libro di Natalia Ginzburg e Elsa Morante. Dà la sensazione di aprire un album di vecchie foto. E le foto in questione sono quelle della famiglia Levi.
Lessico famigliare, vincitore del Premio Strega nel 1963, è l’opera più rappresentativa della scrittrice piemontese, un crocevia di incontri e un affresco del secolo scorso tra gli anni Trenta e Cinquanta, in mezzo il secondo conflitto mondiale e i venti antifascisti, il boom economico e un’Italia da ricostruire.

Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire: «Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna» o «De cosa spussa l’acido solfidrico», per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi o parole. Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’un con l’altro, noi fratelli, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza d’un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e risuscitando nei punti più diversi della terra quando uno di noi dirà – Egregio signor Lipmann, – e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: – Finitela con questa storia! L’ho sentita già tante di quelle volte!

Ma questa storia, da leggere come un romanzo sincero e autobiografico come è ribadito nell’Avvertenza, scorre veloce tra le vie torinesi piene di luce e regalità.
Fin da subito c’è una prima incursione in casa Levi, senza esitazioni ci si siede a cenare con tutta la famiglia: «nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o miei fratelli rovesciavamo un bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: – Non fate malagrazie!».
Quest’ultimo è solo un primo assaggio del personalissimo vocabolario utilizzato abitualmente da Giuseppe Levi per apostrofare qualcuno o descrivere una situazione, come fare sbroderizzi inzuppare il pane nella minestra, negrigura chi ha modi goffi e impacciati, babe le amiche giovani della madre. Un formulario che dà vita a un reticolato di relazioni e immagini; il lessico diventa un elemento unificante, richiama valori e sensazioni mai sopiti: sono stretti vincoli di memorie.
La personalità dirompente del padre fa da padrona. Giuseppe non sopporta, impartisce, obbliga i suoi cari alle sue esigenze e ai cambi d’umore ma nei suoi gesti c’è una nota ilare. Livia, la madre, è gioviale, sempre pronta a calarsi nei panni di cantastorie: i racconti e le filastrocche popolano molti momenti della quotidianità.
Casa Levi, in via Pastrengo, riecheggia degli amici di sempre – i Salvatorelli, i Carrara, i Lopez, i Terni ai quali si offre solo tè e biscotti – e delle figure importanti della nostra Storia come Filippo Turati, Anna Kulishioff, Adriano Olivetti. «Alcuni in piena guerra scomparvero nella polvere della strada».
C’è un affettuoso ricordo di Cesare Pavese, carissimo amico di Leone, che mangia le ciliegie dal sapore di cielo mentre percorre la strada per fare visita ai coniugi Ginzburg; quando legge l’Illiade in greco cantilenando i versi nelle ore di pausa dalle revisioni di bozze in casa editrice.
La casa editrice in questione è l’Einaudi ma non viene mai menzionata se non attraverso un breve ritratto di Giulio, il fondatore.
Il contesto familiare si allarga per uscire al di fuori delle mura domestiche fino a via Re Umberto, a Parigi, Roma e ancora Torino.
Natalia appare defilata, se ne legge qualcosa della sua sottile figura, tanta è la potenza di queste presenze e di quel linguaggio come patrimonio da tramandare nel tempo; è l’intimità e l’incanto della fanciullezza: i ricordi dell’infanzia si mescolano con quelli dell’età adulta, il confino in Abruzzo, il lavoro all’Einaudi, il matrimonio con Leone.

Ho scritto soltanto quello che ricordavo. Perciò, se si leggesse questo libro come una cronaca, si obbietterà che presenta infinite lacune. Benché trattato dalla realtà, penso che si debba leggerlo come se fosse un romanzo: e cioè senza chiedergli nulla di più, né di meno, di quello che un romanzo può dare.
E vi sono anche molte cose che pure ricordavo; e che ho tralasciato di scrivere; e fra queste, molte che mi riguardavano direttamente.
Non avevo voglia di parlare di me. Questa difatti non è la mia storia, ma piuttosto, pure con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia. Devo aggiungere che, nel corso della mia infanzia e adolescenza, mi proponevo sempre di scrivere un libro che raccontasse delle persone che vivevano, allora, con me. Questo, è in parte quel libro: ma solo in parte, perché la memoria è labile, e perché i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito.

Buon compleanno, Natalia.

 

Titolo: Lessico famigliare
Autore: Natalia Ginzburg
Editore: Einaudi
Pagine: 264
Anno di pubblicazione: 2014
EAN: 9788806219291
Prezzo di copertina/ebook: € 12,00 – € 6,99