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Fuori dai libri

Ho perso le parole: come il Covid ha ridotto il mio vocabolario

Premessa doverosa: quel che riporto nell’articolo non ha alcuna base scientifica, è frutto di mie considerazioni.

Mi sono studiata in questi lunghi mesi di pandemia. Ho fatto caso alla costruzione di un pensiero, ai suoni che escono dalle corde vocali.

Ho perso le parole.

Quante? Non è idea.

«Eppure ce le avevo qua un attimo fa

Dovevo dire cose» (cito Ligabue)

Cosa? Non saprei, visto che la vita si è ridotta ha una finestra sul cortile.

Sia chiaro, non è una situazione eterna, ma nella misura del tempo umano lo è.

Mi sento sgrammaticata.

Uso sempre le stesse formule, non termino la frase, mi sfianco a trovare la parola giusta o la chiusa ideale che non arriva. È possibile che abbia dimenticato ciò che era il mio vocabolario?

Sono una donna che si informa molto, leggo altrettanto, eppure qualcosa si ridotto in termini di povertà di lessico. Perché è come se rimanesse tutto fermo nella mia testa e da lì non esce.

Se si non esercita la propria lingua, al pari di una straniera, un po’ di cose devono necessariamente essere riviste.

Imputo tali lacune all’eremitaggio forzato nelle quattro mura domestiche – che di spirituale ha ben poco –, alla mancanza di uno scambio di idee, alla drastica riduzione di relazioni proficue, persino di incontri non sempre piacevoli ma tali da smuovere dialoghi, perdersi in riflessioni senza capo né coda, insomma sciogliere la lingua.

È come se fosse creato una cesura tra il dentro e il fuori, o meglio un sottovuoto. Proprio quell’effetto lì.

I legami familiari hanno una prossemica stabilita, consunta, mai avuta prima. La ripetitività non solo delle espressioni, ma persino dell’oggetto del discorso: tanto di cosa vuoi discutere se la vita si è ridotta a dati, apprensioni? Gli unici stimoli sono le polemiche giocate sui social, che è fumo che si esaurisce in una manciata di ore. Anche nella comunicazione digitale saltano tutte le regole grammaticali, per adeguarsi allo spazio e all’informalità.

Ci sono le telefonate, che nel mio caso non produco alcun effetto perché non prediligo stare incollata al cellulare. Se posso evito le conversazioni lunghe. E per quanto ciascuno di noi possa essere avvezzo, resta sempre un mezzo che riduce la conversazione a un linguaggio colloquiale nella maggioranza dei casi, o gergale se si passa all’ambito lavorativo.

La vita che si svolgeva per la maggior parte del tempo fuori entrava la sera dentro casa o spesso si abbandonava sull’uscio per non innervosirsi ulteriormente. Da un anno e mezzo, salvo alcune situazioni, ha un perimetro, igienizzante alla mano e un mondo virtuale che comunque ci ha fatto compagnia. Abbiamo chiuso il mondo in un barattolo.

Ho perso le parole.

Ma confido nel vaccino, per riappropriarmi della mia lingua e degli incontri.