Prendo in prestito un racconto di Bernad Malamud, Un’estate di letture, per farne un bilancio, anche se con un certo ritardo, visto solitamente è un’apertura di settembre ma i titoli in questione sono stati piuttosto impegnativi. Non ho dedicato il mio tempo solo alla lettura, per fortuna ho viaggiato. Dunque, alle soglie dell’autunno, la mia estate in libri.
Nell’ultimo racconto, La scoperta di Joyce, che chiude la raccolta La visita, si intuisce il senso della scrittura di Carlo Cassola.
Fausto, che lo ritroviamo protagonista di diversi racconti, è iscritto a Legge ma vorrebbe stare con Anna e diventare scrittore – non due pensieri separati ma un unico sentimento. Si trova a fare i conti con l’inconsistenza delle sue righe.
Iniziata l’università, trascorre i pomeriggi nella periferia romana – tra Ponte Milvio e le propaggini di Monte Mario –, un vagabondaggio indispensabile per la sua formazione letteraria, per trovare materiale, cifra stilistica e soprattutto educare lo sguardo all’osservazione, insomma «partire in cerca di avventure»: le architetture scomposte e scarne, il vociare delle strade spogliate dai rigori borghesi.
Era tutto teso come nell’imminenza di una scoperta. Non voleva tornarsene ancora una volta a casa a mani vuote! Frugava con lo sguardo nell’aria di cenere, tra i fiumi che si levavano dalle baracche e la nebbiolina che saliva dal fiume. Ma in quale libro aveva già trovato la descrizione di un ammasso di casupole al crepuscolo?
A un tratto ricordò che era uno dei racconti di Gente di Dublino. Lo scrittore paragonava le casupole a un gruppo di vagabondi che stessero per alzarsi, scuotersi la polvere di dosso e riprendere il cammino. Fausto ricordò che Joyce sembrava prediligere anche lui i paesaggi di periferia e l’ora del crepuscolo. Colpito da questa scoperta, si sentì pronto per il ritorno.
Lo stesso autore ne parla nella prefazione: visioni ferme – quadri, fotografie, stampe – costruire intorno una vita: il racconto a sua volta deve tendere a riprodurre quel moto e quella vita che sono al di là del limite, che si rivelano attraverso segni, barlumi, spiragli, occasioni, giusta la terminologia montaliana: la narrazione deve tendere a essere una cinematografia dell’impossibile.
La visita, ampliata dalla Periferia e dalla Moglie del mercante, è la raccolta giovanile di Cassola, ne risente delle asprezze, l’immaturità della creazione ma in ciascuno di essi ho trovato ciò che mi ha travolta con Il taglio del bosco. Dettagli. Atmosfere. Cassola.
In mente ho una scena della Grande bellezza di Sorrentino, in cui il soffitto si tinge di azzurro, teatro di un ricordo indelebile: un giovane Gep Jampardella sfugge alla morte riemergendo dopo il passaggio di una barca, e vittorioso guarda Elisa, forse l’unico amore della vita. Assonanze, forse, di contesti sociali anche in Ferito a morte di Raffaele La Capria.
Un’atmosfera liquida, onirica, che avviluppa l’incipit, vuole Massimo alle prese con un incubo in cui realtà, desiderio si mescolano senza trovare una via d’uscita. Niente patina nostalgica o traumatica, solo una certa consapevolezza di ciò che è stato, delle cause di quel gesto, la Grande Occasione Mancata, apparentemente riconducibile alla figura di Carla, ma il cui congegno è più articolato.
«Mi vuoi dare il tempo?»: il gatto di casa De Luca è impaziente. Ma qui il tempo sembra arrovellarsi, in un rimescolio di monologhi interiori, continui cambi di osservazione, scarsa trama. «Il film è stato già girato in un ordine diverso, e tutto fermo nel rotolo del tempo?». Sì, di una lunghissima giornata estiva riacciuffata a morsi, da lontano, ripensata come di una giovinezza illusoria e grottesca ma vitale nella rovina delle cose. Aghi di pino, catrame, frantumi di pietra pomice, una farfalla morta, fili d’erba marina. Sedimenti sulla superficie marina. Fantasmi d’estate.
Scrive Giorgio Barberi Squarotti nella prefazione a proposito dei movimenti dei personaggi:
hanno la necessità assoluta di parlare senza interrompersi, con affannosa fedeltà all’inflessione con cui sono pronunciati i richiami in una lontana giornata di pesca subacquea e in uno degli infiniti episodi delle estati marine, perché il loro monologare rappresenta l’unico modo con cui cercano di difendere se stessi dal tempo, di dimostrare che sono vivi, e non ombre o inganni del sole e del mare, è l’estremo punto di resistenza alla tentazione di autodistruggersi, l’unico modo con cui cercano di aggrapparsi agli oggetti e agli uomini, e di avere sentimenti, di rendere meno precari moti, gesti, incontro, desideri, aspirazioni, meno desolatamente frivoli o impossibili gli amori.
Sullo sfondo la Foresta Vergine, la Gran Madre Napoli dalla quale solo Gaetano taglia il cordone ombelicale, gli altri, lo stesso Massimo, tentano goffe e vane vie di fuga. La salsedine della Storia e dello splendido mare intacca la città, l’alta borghesia, il timpano, gli stratagemmi per stare ancora a galla.
Massimo, ferito, si annulla, predilige altre personificazioni e a inseguire per sempre i capelli biondi di Carla che ondeggiano tra la folla.
Cambio di registro con Italo Calvino e il suo Barone rampante. A tratti una fiaba, un racconto filosofico, si nascondono tra le pieghe del racconto l’umorismo, l’avventura, fantasia.
Seppur ridotta l’edizione Einaudi per ragazzi, a cura di Tonio Cavilla, chiarisce il miscuglio di date ed eventi, nonché a guidare il lettore a una maggiore comprensione della cronaca che vuole tre narratori: l’autore, Biagio e Cosimo, che in un capitolo prende la parola.
L’idea di collocare l’immaginaria vicenda nel pieno Settecento è un pretesto per l’autore per svincolarsi dalla Storia e focalizzarsi su un argomento che gli sta molto a cuore: il paesaggio ligure, rigoglioso, prima della speculazione edilizia, colate di cemento hanno sommerso la Riviera.
Calvino vuole Ombrosa ricca di vegetazione, la reinventa dei luoghi e dei ricordi infantili. E fa protagonista un giovane Cosimo di Rondò collocandolo sugli alberi, custode dei boschi.
Sono tempi di fermenti culturali intensi, dei Lumi e della ragione, che porteranno alla Rivoluzione francese e a nuovi assetti politici, gli ideali dell’Illuminismo giungono fino a Ombrosa.
Cosimo è un utopista, un visionario compreso solo in base alle oscillazioni della Storia, ma terrà sempre fede alla sua coerenza e principi. Ma lo stesso Barone rampante può considerarsi lo scrittore, che davanti alla crisi della letteratura, sente la distanza, sospeso su fragili rami, un ricamo sul nulla che assomiglia a un filo d’inchiostro.
Si direbbe che gli alberi non hanno retto, dopo che mio fratello se n’è andato, o che gli uomini sono stati presi dalla furia della scure. Poi, la vegetazione è cambiata: non è più lecci, gli olmi, le roveri: ora l’Africa, l’Australia, le Americhe, le Indie allungano fin qui rami e radici. Le piante antiche sono arretrate in alto: sopra le colline gli olivi e nei boschi dei monti pini e castagni; in giù la costa è un’Australia rossa d’eucalipti, elefantessa di ficus, piante da giardino enormi e solitarie, e tutto il resto è palme coi loro ciuffi scarmigliati, alberi inospitali del deserto.
Ombrosa non c’è più.
Rimanendo nel campo fiabesco, dal taglio più saggistico, Scienza della fantasia di Davide Coero Borga analizza il legame tra scienza e alcuni elementi e figure ricorrenti della narrazione – foreste, castelli incantati, cavalieri, oceani. Lo scrittore è un novello Propp che ordina una curiosa morfologia della scienza, anche se preferisce ispirarsi alla Grammatica della fantasia di Rodari. Al cospetto di Borga giungono non solo le fiabe classiche ma anche le storie animate di balene, esplorazioni, giardini segreti, terre di mezzo, periferie di città, sbarchi sulla luna, alambicchi.
Se c’è una cosa che puntualmente fa la scienza, specialmente in fiabe e racconti per ragazzi, è combinare guai, infilare pasticci, produrre insanabili disastri. E a cos’altro dovrebbe mai servire un’invenzione? Il progresso che si rimescola effervescente nelle fiale del laboratorio dello scienziato scardina la più tradizionale e noiosa delle trame assicurandoci il più imprevisto dei ribaltoni. Tensione, suspense, azione. Può un lettore chiedere di meglio?
L’elemento magico, se di primo acchito appare inspiegabile, nasconde un’allusione scientifica o storica. Infatti, davanti a Biancaneve che cade tramortita al primo morso della mela avvelenata, il lettore si dovrà ricredere nel considerare l’accaduto una diavoleria dei Grimm: a quanto pare la matrigna può aver usato cianuro, che mantiene il colore rosso delle gote della fanciulla nonostante la morte. Anche i nani o i fratelli, Hansel e Gretel non sono solo invenzioni narrative per tenere incollato il lettore alla pagina ma sottolineano un nesso con la Storia, con il lavoro minorile e le carestie che sconquassavano l’Europa nei secoli passati. Quindi, nelle fiabe niente accade per caso.
Il libro, il cui carattere è enciclopedico, per niente noioso, è arricchito dalle illustrazioni di Ester Chilese che allestisce un personale alfabeto grafico, e dagli approfondimenti cinematografici, letterari e scientifici che, a mio avviso, interrompono la lettura del testo principale perché posti non al termine di ciascuna voce.
Consultatelo ogni qualvolta ne sentiate il bisogno.
Su William Faulkner e Luce d’agosto non aggiungo altro se non un giudizio sommario: la struttura della storia e i ritratti sono impareggiabili, non posso dire che è stata una lettura bellissima ma nemmeno deludente, piuttosto esige molta attenzione.
Ho lasciato per ultimo The White Album di Joan Didion, per dirvi che l’ho abbandonato esattamente a pagina 141, non ho neanche terminato il testo. E mi dispiace molto. Ho tenuto duro, ma non aveva senso impuntarsi. Ho trovato una Didion quasi da manuale – passatemi il termine –, alquanto distante, più giornalista e meno scrittrice, ma probabilmente dovuta alla natura degli articoli.
Poi a pagina 134 mi sembra di aver trovato una risposta alla mia delusione:
Vi trovate di fronte a una donna che lungo il percorso ha smarrito qualunque barlume di fiducia abbia mai avuto nel contratto sociale, nel principio di miglioramento, in tutto il grandioso sistema dell’impresa umana. […]
Ho dei problemi a continuare a credere all’idea fondamentale che mantenere promesse sia importante in un mondo in cui tutto quello che mi hanno insegnato sembra irrilevante. E ciò che è rilevante sembra sempre più oscuro.
È il 1969, Joan Didion è nel pieno di una crisi matrimoniale, si trova alle Hawaii con il marito e l’amatissima figlia, costretti a trattenersi sulle isole a causa di una possibile onda anomala, conseguenza di un terremoto alle Aleutine. Questo smarrimento si riflette in ogni articolo, anche se effettivamente non esiste alcun legame tra la situazione emotiva e i suoi scritti. Ma quella condizione pare influenzare ogni riga.
Il punto è questo: non ho ritrovato la Joan Didion di Verso Betlemme. L’ho presa in mano carica di troppe aspettative. Non avendo ritrovato le medesime condizioni del libro precedente, è come se avessi costruito intorno molte reticenze dopo poche pagine. Eppure questa scrittura è quella che preferisco di Joan Didion.
Edizioni correnti:
La visita di Carlo Cassola, Mondadori, 2013
Ferito a morte di Raffaele La Capria, Mondadori, 2016
Il barone rampante di Italo Calvino, Mondadori, 2016
Scienza della fantasia di Davide Coero Borga, Codice edizione, 2015
Luce d’agosto di William Faulkener, Adelphi, 2013
The White Album di Joan Didion, Il Saggiatore, 2015