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Fuori dai libri

Ha senso avere un blog nell’era dei social?

Sono tutte in fila, a inizio dell’articolo, le icone social che permettono la condivisione delle mie parole. Due universi distanti ma nati dal medesimo desiderio di farsi leggere.

Blog, social network: ha senso riflettere sulla questione? No e sì. E di certo non scoperchierei il vaso di Pandora.

Potrei risultare antiquata, nostalgica di un’epoca ormai sfumata, quando aprire un blog era considerato appagante, coinvolgente, fino a quando non hanno fatto irruzione i social, che nel frattempo hanno radicalmente modificato il modo di comunicare.

Ho sempre ribadito l’importanza di un sito personale, soprattutto per chi lo coltiva da anni. Non consiglierei di aprirne uno adesso, anche se i social sono molto precari, in un continuo nascere e morire. Infatti, se dovessi soffermarmi su numeri e statistiche, lo dico con franchezza, potrei e dovrei chiudere oggi stesso o chissà quanto tempo fa. Eppure non si vive di solo SEO.

Che cos’è un blog?

Il blog – di qualunque settore vi occupiate – è innanzitutto una carta d’identità, racconta molto di chi ci scrive o di chi ci lavora, qualora fosse associato a un’attività aziendale. Ha una sua fissità, che per me equivale alla possibilità di un posto dove tornare.

Inoltre permette approfondimento e ricerca, rispetto alle poche righe dei social che hanno acuito una tipologia di lettura frammentaria, distratta, sempre più sommaria.

Ci vuole anche un minimo di costanza, far sentire la propria presenza, seppur svincolati dalle logiche giornalistiche. È una casa a tutti gli effetti, da arredare con ciò che ci piace e quando lo si ritiene opportuno.  Alla luce di queste valutazioni consideratelo persino un lavoro, proprio perché richiede energie.

Essere sui social.

I social, è inutile che vi elenchi gioie e dolori, hanno dalla loro la viralità, la sintesi, la rapidità. Su quest’ultimo punto insisto per far notare che non si tratta solo della capacità di spostare opinioni, farsi ascoltare, condividere ma di combattere contro il tempo che è diventato legge amministrato dall’alto.

Quanto dura un post, una foto? Dieci minuti su Instagram, pochi secondi su Twitter e così di seguito. Se non viene condiviso, salvato, sparirebbe repentinamente. E in ogni caso ci troveremo con migliaia di post salvati che chissà se riusciremo a riprendere, come accade ai link che ci ritroviamo nella barra degli strumenti del computer.

Ma quanto costa pensare e creare un post? È sempre frutto di un tempo speso a inventare una narrazione fatta di parole, colore e estro.

Davvero non si tratta di pochi minuti ma spesso volano ore. Ciò che sembra naturale, messo lì per caso, nasce da uno studio che ricalca la personalità del creatore.

Il tempo dei social si gioca sulla battuta, l’attimo, la condivisione per poi finire nel mare magnum dei post rilevanti o meno.

L’algoritmo dà rilevanza ai profili più seguiti, alle sponsorizzazioni, ai gusti degli utenti in un’omologazione che mal si combina con la curiosità, che invece è misura del mondo. Quindi mi chiedo come si fa a giudicare una foto secondo questi parametri, come si fa a raccontare un libro poco noto o qualsiasi altro argomento se a un utente viene mostrato solo quel che si presuma desidera? Non ho una risposta se non credere a un individuo che si ribelli all’automatismo.

Pe me sono impensabili dei suggerimenti indotti, che seguono solo mode, logiche economiche, presunte icone del momento, che precludono una visione eterogenea, io che sono abituata a cercare, curiosare.

La mia storia

Appartengo all’ultima generazione di chi ha aperto un blog durante gli ultimi colpi di coda del periodo d’oro, quando già Facebook imperava nella guerra contro Twitter e Instagram forse era un progetto, un pensiero astruso.

Il mio blog ha 8 anni, l’idea di uno spazio mio nasce durante un periodo tormentatissimo. Più volte ho pensato di chiuderlo, sento sempre più i cambiamenti della lettura e della modalità di reperire le informazioni. Cerco di pubblicare con assiduità, anche se mi sono allineata alle abitudini dei lettori, che sempre più si affidano ai social per rapidi consigli letterari.

Ne faccio comunque un contenitore per le mie riflessioni, le mie letture perché non sono costretta a sottostare alle rigide regole di minuti – per non dire secondi – di pubblicazione, limite e costanza. Mi tengo ancorata qui.

Questo foglio bianco – seppur virtuale – mi permette libertà, se scrivere dieci, cinquanta righe o rimandare a un altro giorno una nuova storia.